Che impatto hanno gli stravolgimenti epocali che stiamo vivendo nel pensiero e nell’agire umani? La società digitale globale, cui consapevolmente o inconsciamente, tendiamo, ci migliorerà? E come reagiscono le nuove generazioni? Perché, in fondo, la scuola è già immersa in questo processo di trasformazioni radicali. Che, però, è tutt’altro che migliorativo, arricchente, vantaggioso. Almeno stando alla convinzione che ne traggono più di 60 studiosi di fama nazionale e internazionale, tra cui diversi accademici dei Lincei, di formazioni culturali diverse e appartenenti a numerose discipline scientifiche e umanistiche, dalle neuro-scienze alla filosofia.
A loro si deve una lettera appello – la cui stesura iniziale porta le firme di Luciano Boi, Lamberto Maffei, Michele Maggino e Carlo Ossola rivolta ad insegnanti, studenti e genitori, cittadini, in cui si invoca una «rinascita della scuola». Sempre più soggetta, scrivono i firmatari, a logiche di «aziendalizzazione e digitalizzazione pervasiva», che portano alla «rimozione di modalità importanti dell’apprendimento come l’immaginazione, la memorizzazione, l’osservazione, la sperimentazione e la socializzazione». Obiettivo ultimo delle «élite di potere», aggiungono gli intellettuali, è un inesorabile traghettamento verso «il pensiero unico ed il trionfo della tecnocrazia». Una dinamica distorta che sarebbe contenuta nel cosiddetto “Piano Scuola 4.0”, con il quale «si intende dare un’accelerazione al processo di digitalizzazione della didattica» perché si modellino «una scuola digitale, uno studente digitale, un insegnante digitale, una pedagogia digitale». Con buona pace delle «forme di sapere tradizionalmente intese, cioè elaborate, rielaborate, conservate, sperimentate, trasmesse attraverso un sistema di comunicazione prevalentemente alfabetico, causale e sequenziale, o attraverso forme di conoscenza empirica». Con i rischi che, nell’analisi degli studiosi, sono sotto gli occhi di tutti: immergere «passivamente gli studenti in realtà virtuali prefabbricate che possano essere da loro scambiate con realtà naturali, senza fornire gli strumenti critici per analizzarne la logica di progettazione e gli inevitabili limiti.
La didattica digitale si fonda infatti sulla dematerializzazione e sull’assenza del corpo». Una condizione per la quale «vengono meno l’espressività, la riflessione e la rielaborazione critica degli argomenti che, nella classe come comunità interpretativa, si istituiscono attraverso il dialogo aperto, la reciprocità dello sguardo, il movimento dei corpi, l’incontro umano, la vita. La pedagogia digitale, disconnettendo i bambini dal mondo fisico per collegarli ad uno virtuale, in definitiva, nega l’umano, nega la vita». Conclusioni che i firmatari della missiva hanno condiviso anche sulla scorta della relazione finale sull’indagine della VII commissione permanente del Senato dal titolo “Sull’impatto del digitale sugli studenti”, che si è avvalsa del parere di psichiatri, neurologi, psicologi, pedagogisti. Le conclusioni sono che la prolungata esposizione degli studenti ai dispositivi elettronici comporta «danni fisici: miopia, obesità, ipertensione, disturbi muscolo-scheletrici, diabete. E ci sono i danni psicologici: dipendenza, alienazione, depressione, irascibilità, aggressività, insonnia, insoddisfazione, diminuzione dell’empatia».
Ma a preoccupare di più è «la progressiva perdita di facoltà mentali essenziali, le facoltà che per millenni hanno rappresentato quella che sommariamente chiamiamo intelligenza: la capacità di concentrazione, la memoria, lo spirito critico, l’adattabilità, la capacità dialettica». Insomma, «i dispositivi digitali generano dipendenza e riducono la neuroplasticità del cervello. Niente di diverso dalla cocaina», si legge nel documento di Palazzo Madama. Che tira le somme: «Non sono emerse evidenze scientifiche sull’efficacia del digitale applicato all’insegnamento». Così concludono gli autori della lettera appello: «È ormai inderogabile contrastare queste tendenze se vogliamo gettare le basi per un rigenerato umanesimo del terzo millennio e proporre con forza una scuola ed un’educazione dell’uomo orientate verso il senso e le finalità profonde della sua natura ed esistenza». In sintesi, «è necessario prefigurare una scuola che abbia come compito prioritario più quello di educare che di istruire, più quello di formare che di informare».
Articolo di Vito Salinaro pubblicato su Avvenire, il 3 settembre 2023