Dopo aver approfondito l’aspetto della sinodalità del popolo (romano) di Dio e della collegialità episcopale (romana), vorrei chiudere la riflessione sulla costituzione apostolica “In ecclesiarum communione” (che riforma il vicariato di Roma) con qualche breve considerazione su un ambito a me vicino: quello dell’insegnamento della religione (IRC). Perché, come spesso capita per ciò che sta sulla frontiera, a volte quasi come pietra dello scandalo, esso dice molto di quanto la Chiesa sia (o meno) riuscita ad approfondire il suo modo di relazionarsi con il mondo.
Nell’art.33 (Titolo IV) della nuova costituzione vengono elencati i nuovi uffici del vicariato, divisi per ambiti – coordinati da un vescovo ausiliare, secondo specifica nomina papale – e pensati «in conformità ai principi e alle norme» emergenti dalla riforma stessa, a partire da quello della sinodalità.
L’ufficio per la pastorale scolastica e l’IRC è stato inserito nell’ambito educativo. Tale posizionamento, in relazione al fatto che non è stato invece inserito in quello della formazione cristiana (dove troviamo gli uffici della catechesi, del catecumenato, della liturgia e dei sacramenti), dice molto su un cambiamento e un chiarimento ormai definitivo rispetto all’impostazione anteriore al Concordato del 1984, la quale risultava evidente nella costituzione apostolica “Vicariæ potestatis in urbe” di Paolo VI.
Qui, pur non venendo nominato direttamente l’IRC, nel momento in cui si parlava di «alunni delle scuole» e di «scuole cattoliche» lo si faceva all’interno del «Centro pastorale per l’evangelizzazione e la catechesi» (art.6), così come quando si parlava di «formazione e aggiornamento» lo si faceva riferendosi insieme ad «insegnanti e catechisti» (art.4). È evidente che IRC e catechesi non si distinguevano ancora e, non a caso, l’oggetto dell’IRC era definito ancora dottrina. La prassi di molte diocesi, infatti, è stata quella di inserire l’IRC nell’alveo del munus docendi episcopale o del ministero della Parola anche dopo il Concordato del 1984 (nel quale però si parlò espressamente di cultura religiosa), contribuendo così a perpetuare la confusione tra IRC e catechesi/evangelizzazione.
Nella successiva costituzione apostolica – l’“Ecclesia in urbe” (1998) di Giovanni Paolo II – l’IRC veniva inserito in un ufficio di «carattere pastorale» (scolastica e, appunto, dell’IRC – art.28). È vero che tutti gli uffici e i servizi, salvo quelli tipicamente giuridico-amministrativi, erano di carattere pastorale, ma è anche vero che, in un elenco di tali uffici che non era casuale, catechesi/catecumenato ed IRC risultavano contigui, anzi rispettivamente il primo e il secondo – nonostante lo stesso Giovanni Paolo II avesse chiaramente indicato e spiegato perché la “scottante” relazione tra IRC e catechesi/evangelizzazione potesse restare sostenibile, ferma restando la valenza educativa, solo attraverso la mediazione di un approccio culturale (come ho provato a dimostrare qui).
Perciò è indiscutibile il passo in avanti definitivo compiuto da Papa Francesco nel processo di distinzione (di finalità e, forse, metodi) senza contrapposizione (di contenuti e soggetti) tra IRC e catechesi/evangelizzazione, sganciando, anzi allontanando, ambito catechetico ed ambito educativo – dato che, nella riforma attuale, tra i due ambiti sono stati posti quelli relativi all’Ordine sacro, alla vita consacrata e alle età della vita.
D’altra parte, in occasione dell’uscita della costituzione apostolica “Praedicate evangelium” (che riforma la Curia romana), avevo mostrato qui come anche questo passo in avanti (nello specifico, rispetto alla “Pastor bonus” di Giovanni Paolo II) poteva essere un po’ più lungo.
L’inserimento dell’IRC all’interno del nuovo Dicastero per la Cultura e l’Educazione, ma limitatamente alla sezione Educazione – non più definita cattolica ma riferita ad istituzioni tout court cattoliche – si rivela una scelta non casuale, alla luce dell’identica scelta compiuta ora nella riforma del vicariato di Roma. Ma essa ci sembra una scelta che dell’IRC indebolisce le potenzialità di incontro e confronto culturale (PE, artt.153§2; 157§2) e, quindi, le sue risorse dialogiche e di inculturazione (PE, artt.154; 156; 158), soprattutto se la confrontiamo con il forte legame instaurato tra evangelizzazione, teologia e cultura nel proemio di Veritatis gaudium (§1-6).
Di più, analizzando qui quanto Benedetto XVI e la Congregazione per l’Educazione Cattolica avevano scritto nel 2009 – sulla scia di Giovanni Paolo II – in merito al delicato equilibrio tra educazione e cultura nell’IRC, questo passo in avanti (dalla catechesi all’educazione) fatto compiere all’IRC da Papa Francesco rischia fortemente, nella sua incompiutezza (rispetto alla cultura), di creare il paradosso di un IRC che proprio sotto il Papa attuale dia vita di fatto a pratiche mascherate di proselitismo ed indottrinamento.
Per questo motivo, quando ho letto tutto l’art.33 della riforma in questione e, dopo l’ambito della Diaconia della Carità (Caritas, sanità, carceri), ho notato che l’ultimo ambito viene definito in modo innovativo ambito della Chiesa ospitale e «in uscita» (con i relativi uffici della Cultura, dell’Ecumenismo e Dialogo interreligioso, della Cooperazione missionaria delle Chiese, dei Migrantes, delle aggregazioni laicali, etc.), ho sussultato e mi è sfuggito un “ma come…?”.
Non penso di essere stato l’unico ad aver definito in questi anni l’IRC come Chiesa-in-uscita (per i motivi qui spiegati), ma anche fosse, mi sono chiesto: come è possibile non aver notato la contraddizione che c’è, anche solo rispetto a “Praedicate evangelium”, nel separare l’ambito attuale dell’IRC da quello della Cultura? Oppure, rispetto a “Vicariæ potestatis in urbe”, nel non aver colto che lo spostamento della questione dell’Ecumenismo dall’allora ambito catechetico a quello ospitale-“in uscita” attuale, in conformità alla riforma conciliare del pensiero cattolico sul tema, avrebbe dovuto trascinare con sé l’IRC, anche solo per il fatto di ospitare nelle proprie ore quelle «domande che sfidano la nostra autoreferenzialità» (Proemio, §14) provenienti da studenti e genitori atei/agnostici, ortodossi, a volte evangelici, ebrei o islamici, e perciò tali da costringerci a ripensare il linguaggio teologico con cui comunichiamo? Lo stesso Giovanni Paolo II (vedi sopra) pensava che il problema ecumenico e quello dei migranti motivassero un approccio quantomeno anche culturale, oltre che educativo, dell’IRC.
D’altronde, pur immaginando – come ho ipotizzato qui – che il nodo della questione possa risiedere nel Codice di Diritto Canonico (CIC), mi sembra che esso verrebbe facilmente sciolto se del CIC: 1) si prendesse sul serio il fatto che il polo educazione viene dopo non solo quello catechetico ma anche quello missionario; 2) si sviluppassero le tracce che legano evangelizzazione, missione e quindi tanto più educazione alla centralità e priorità dell’ascolto dialogico e della mediazione culturale. In tal modo, l’IRC potrebbe serenamente essere pensato e praticato come attività dialogico-culturale volta a dissodare/adattare il terreno incontrato o ad accomunare/confrontare due terreni che si sfiorano sulla frontiera, pronta a far gioire gli IdR – come cercatori di tesori o rabdomanti – nel caso emerga qualche perla o fonte preziosa dal terreno dell’altro…
Sarà possibile vedere questo piccolo ma decisivo passo in più entro tempi ragionevoli o dovremo aspettare almeno altri vent’anni?
Articolo di Sergio Ventura pubblicato il 19 gennaio 2023 in Vino Nuovo spunti per l’umanità di oggi.