Un libro che racconta una storia bella e vera, un moderno romanzo epistolare di formazione, un piccolo “galateo esistenziale” per la vita adolescenziale e sulla relazione educativa significativa. Lui e lei, anzi lei e lui, l’allieva e il professore sono alla pari autori e protagonisti del libro Virginia e il Professore” edito da Elledici (158 pagine, 9.90 euro). Il sottotitolo Lettere oltre il banco e la cattedra potrebbe far volare la fantasia in direzioni sbagliate: è una “storia d’amore” sì ma non del genere usuale. È una storia d’amore per la vita, per l’educazione, per la cultura tra chi vive di sogni e chi sogna con i piedi per terra, in un “intervallo di confidenza” fatto di fiducia, confronto, stima e affetto. Virginia Di Vincenzo è un’adolescente piemontese che vive a Chieri (Torino), mentre Marco Pappalardo è un professore, scrittore e giornalista siciliano, dunque il confronto è a distanza attraverso una modalità da boomer – la lettera – che qui incontra la Generazione Z trasformandosi in email.
La prima di queste, indirizzata da Virginia a una rivista educativa, inviata una quindicina di anni dopo che sua mamma aveva scritto una lettera simile, rimasta però senza risposta. Destino che sarebbe capitato pure alla figlia se non ci fosse stato un professore di Lettere che ha colto in essa un richiamo, una sorta di messaggio nella bottiglia che in genere naviga nel mare indifferente degli adulti, e ha voluto rispondere. Ecco la scintilla: una risposta, e da qui una serie di epistole virtuali e virtuose che per un anno (il primo della scuola superiore) ha toccato nella confidenza reciproca quanto pulsa nel corpo, nella mente e nel cuore di un’adolescente che afferma di parlare a nome dei suoi compagni di temi come amicizia, famiglia, studio, amore, media, sofferenza, sogni, idoli, libertà, Dio.
E cosa fa il prof? Non ha risposte, pone sue riflessioni, nuovi interrogativi e domande. Virginia non chiede cosa dovrebbe essere, ma dice chi è e cosa ha maturato della vita; non cerca conferme, ma vuole farsi ascoltare. La storia sembra concludersi al termine del primo anno con gli auguri reciproci di buona vita e sereno percorso. Poi il “sequel”, dopo quattro anni, alla vigilia della maturità. Quasi come un addio nostalgico all’adolescenza prima del salto nella seria giovinezza, il dialogo riprende e si chiude a un livello più saggio e consapevole. C’è lo sguardo all’indietro e lo slancio in avanti, e il confronto col prof lontano diventa quasi un impegno, la parola finale che un po’ chiede approvazione e di verificare la maturità raggiunta.
Pietro Mineo
Pubblicato su Avvenire il 9 ottobre 2024